Un luogo sfuggente
C’è un luogo sfuggente chiamato solitudine. Cupo, freddo, umido e spoglio, se ci si fa spingere dentro; abitato da cigolii, ombre mostruose e una nebbia costante. Lo si raggiunge anche quando ci si arrocca in difesa, e diventa più una fortezza imponente, con feritoie per far colare la pece bollente, o un rifugio antiaereo pieno di cibo in scatola. Tutto diresti che potrebbe essere la solitudine, tranne il luogo sicuro che in realtà è quando ne cerchi la porta d’accesso, te ne inventi la chiave per aprirla e ne addobbi le pareti con i dettagli di quel che sei: la collezione di paure tenuta in equilibrio da quella dei successi, i rimpianti bilanciati dai desideri e gli strumenti per mettere in pratica i tuoi talenti.
Alcuni scambiano la solitudine con una forma di licantropia, un’infezione che trasforma in lupi solitari o lupi di mare. Ma è solo perché credono che servano capacità innate per trovare il modo giusto di entrare in quel luogo sfuggente. Come fosse questione di fiuto, d’istinto, di sapiente lettura delle stelle. È comprensibile che un luogo tanto diverso a seconda di come ci si arriva possa fare paura, far sentire incerti, neanche si dovesse attraversare un intero lago ghiacciato. La questione però è semplice: si tratta di ricordare che l’interiorità non è fatta di interiora e che la si può srotolare e leggere e miniare, come una pergamena. È quando decidi di farlo che trovi la porta del luogo sicuro, che tu sia seduto sulla poltroncina di un aeroporto in attesa della partenza, in cammino in un bosco frusciante di vento, o intento a gustarti la fragranza di pane nel rumore del traffico.